Nei giorni scorsi è circolata la notizia secondo cui il ministro Cingolani si sarebbe opposto alla sentenza del Tar di Lecce in merito all’acciaieria ex Ilva di Taranto. In realtà non sarebbe andata proprio così, poiché il Ministro alla Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, colui che dovrebbe essere il promotore di quello che il premier Mario Draghi ha definito «governo ecologista», non ha fatto ricorso alla sentenza di Appello di primo grado schierandosi così con Mittal, bensì avrebbe fatto ricorso solo al pagamento delle spese. Esprimendo la propria posizione ai microfoni di The Breakfast Club su Radio Capital, nei termini che seguono: “Non possiamo chiudere e mettere per strada migliaia di lavoratori, ma neanche possiamo pensare che lo stato possa intervenire su tutto. Transizione vuol dire garantire un compromesso tra ambiente e sostenibilità sociale. Io domani non mi sveglio e cambio le tecnologie di un’impresa. Non si può pensare di cambiare l’Ilva dall’oggi a domani“. Da queste parole si capisce chiaramente cosa il Ministro NON vuole fare ma non è chiaro cosa, nella pratica, voglia fare. Prima di formulare le nostre considerazioni, ripercorriamo storia e vicende legate all’Ilva:
Il Gruppo ILVA è la più grande realtà industriale siderurgica italiana, di proprietà di ILVA Spa. È una multinazionale attiva nella produzione e trasformazione dell’acciaio e possiede ad oggi 15 unità produttive per una capacità di 8 milioni di tonnellate l’anno a fronte di un fatturato che nel 2016 è stato di 2,2 miliardi di euro. Attualmente il Gruppo possiede stabilimenti in Francia e in Italia, dove si trovano 13 unità produttive tra cui lo stabilimento di Taranto.
Lo stabilimento Ilva di Taranto ha un’estensione pari a tre volte la città di Taranto, venne costruito, a spese dello Stato, nel quartiere Tamburi, che conta 18000 abitanti circa, del tutto immerso nel contesto urbano della città di Taranto: i parchi minerali si trovano, infatti, a 170 metri dalla zona residenziale, le cokerie a 730 metri e il muro di recinzione a 135 metri dalla casa più vicina. Nel 2011 uno studio di Ambiente e Sicurezza rilevava che l’impatto ambientale di un simile impianto è potenzialmente devastante e necessita di accurati e costosi interventi per ridurre la pericolosità delle emissioni, per controllare lo smaltimento dei rifiuti tossici e per evitare le dispersioni di polveri inquinanti nell’aria.
Nel 2012, il Gip di Taranto, dott.ssa Todisco, disponeva il sequestro senza facoltà di uso degli impianti a caldo dell’ILVA: «Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Secondo il Gip essi avrebbero agito, dal 1995 sino al 2015, anno del commissariamento, nel più totale spregio di qualsivoglia norma di tutela ambientale.
Il provvedimento giudiziario evidenzia, inoltre, come i vertici aziendali (il CdA e il Direttore dello stabilimento) avrebbero posto in essere «un’associazione per delinquere allo scopo di commettere più delitti contro la pubblica incolumità». Il provvedimento quantificava in 8 miliardi di euro i costi necessari per la bonifica. Ad aggravare ancor di più la vicenda pare vi sia un ulteriore studio condotto nell’autunno 2016 dall’Istituto Superiore di Sanità in collaborazione con la Asl di Taranto e l’Università di Brescia, che evidenziava “Una situazione di potenziale presenza di disturbi clinici e preclinici del neurosviluppo nell’area di Taranto, non riconosciuti e non adeguatamente sottoposti ad interventi preventivi, terapeutici riabilitativi”.
Lo studio dell’ISS confermava i dati già presentati sulle incidenze tumorali dirette delle maggiori concentrazioni di PM10 (particelle sospese di diametro inferiore a 10 mm) e SO (anidride solforosa), e introduceva alcuni nuovi dati significativi, in particolare, si registrava una flessione nell’incidenza delle patologie che corrisponde alla flessione delle attività industriali dovuta alla crisi (periodo 2008-2010), per registrare un successivo aumento (periodo 2010-2012) in corrispondenza della ripresa ed un ulteriore declino nel 2013-2014.
L’andamento della mortalità ha dunque seguito in maniera speculare l’andamento della produzione. Inoltre, lo studio chiarisce che tali decessi non sono legati a fattori di rischio esterni ed afferma che «l’esposizione continua agli inquinanti emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi che si traducono in eventi di malattia e morte».
All’inizio di quest’anno, la magistratura aveva per la prima volta associato la morte del piccolo Lorenzo Zanatta, avvenuta nel 2014, alle sostanze inquinanti prodotte dall’impianto siderurgico. Dopo anni di tavoli istituzionali, studi scientifici e report vari mostrerebbero il fortissimo impatto sull’ambiente e la salute dei cittadini di Taranto, con incidenza tumorale molto superiore alla media nazionale. Il ministero della Transizione ecologica, attraverso l’Avvocatura dello Stato, ha presentato ricorso alla sentenza del Tar di Lecce che, lo scorso 13 febbraio aveva ordinato lo spegnimento degli impianti dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto, entro 60 giorni perché responsabile dello “stato di grave pericolo” in cui vivono i cittadini a causa del “sempre più frequente ripetersi di emissioni nocive ricollegabili direttamente all’attività del siderurgico”. Il ministero guidato da Roberto Cingolani ha depositato una memoria al Consiglio di Stato che il 13 maggio prossimo dovrà decidere se confermare o meno lo stop alle attività produttive dello stabilimento. Nonostante se ne sia parlato tanto, in questi documenti (ricorso e memoria) si evince la richiesta di riforma del punto della sentenza riguardante le spese.
Per brevità, in questa sede, facciamo menzione soltanto dei punti di svolta, che da un punto di vista giornalistico abbiamo ritenuto esaustivi per comprendere la complessa questione che ruoterebbe attorno al caso Ilva: correva l’anno 2017, che potremo ribattezzare l’anno del rilancio, in cui venne per l’appunto supportato, il rilancio dell’impianto, a partire proprio, non da un decreto o uno dei numerosi report scientifici, ma da un parere dell’Avvocatura di Stato. A rileggere oggi gli intenti, a fronte del disimpegno del gruppo con sede in Lussemburgo, ci sarebbe da sorridere se non ci fossero di mezzo circa 11mila dipendenti, quasi altrettanti nell’indotto e una tensione politica palpabile nell’allora maggioranza.
È indubbio che da allora qualcosa sia cambiato, ma forse non troppo! Intanto da Sider web, la community dell’acciaio, apprendiamo quanto segue: Fim, Fiom e Uilm hanno proclamato 24 ore di sciopero con manifestazione, per lo scorso 23 aprile, presso il MiSe a Roma. «Bisogna far sentire la voce dei lavoratori – si legge in una nota congiunta – stanchi di subire anni di mancate scelte da parte dei Governi che si sono susseguiti senza mai programmare un futuro di rilancio dello stabilimento di Taranto, sia in termini ambientali che occupazionali». In preparazione dello sciopero i sindacati hanno programmato una campagna di assemblee con i lavoratori. Fim, Fiom e Uilm chiedono: «No ai licenziamenti discriminatori e reintegro dei lavoratori illegittimamente licenziati. Forniremo ai Ministri del Lavoro e dello Sviluppo economico un dossier dei casi che hanno visto coinvolti alcuni lavoratori; accelerazione per favorire ingresso di Invitalia necessario a garantire il processo di risanamento ambientale e la piena occupazione; individuazione di risorse economiche dedicate esclusivamente alla realizzazione di interventi di manutenzione ordinaria e straordinari. Di che natura saranno questi interventi straordinari? Quello che ci stiamo chiedendo in questa sede è: “la transizione green dell’Ilva oltre che auspicabile è realizzabile in termini fattuali?
All’orizzonte si profilano diverse alternative, quella che nelle ultime ore è andata venuta alla luce è l’idea di portare ad una rivalutazione definitiva del polo industriale attraverso la costruzione di una Gigafactory Tesla, considerata dai promotori “un’alternativa sostenibile per l’ambiente, una riconversione precisa e definitiva”. In più, secondo i promotori, Tesla potrebbe sfruttare buona parte delle infrastrutture esistenti, come ad esempio il porto, per facilitare approvvigionamento di componenti e smistamento delle vetture finite. Tesla Owners Italia scrive al numero uno di Tesla per chiedergli di trasformare gli impianti di Taranto in una Gigafactory: che ne dite Elon Mask risponderà?
Quale sarà il destino di questa azienda, così profondamente legato all’ambiente circostante – dentro cui, a metà degli anni ’90, fu così malsanamente edificata – e ai suoi comprovati scientificamente effetti dannosi, come abbiamo visto, sulla salute dei cittadini che abitano la zona limitrofa? Ma soprattutto quali sono i legami con le società straniere che ne detengono i capitali privati e quali i costi che lo Stato italiano sarà tenuto a pagare?
Non è illecito né fuorviante chiedersi quali interessi si intrecciano con quella che, apparentemente parrebbe essere una questione meramente istituzionale, che inevitabilmente evoca un compromesso tra salute e produttività, ma che ad uno sguardo più profondo sembrerebbe celare questioni di non facili interpretazioni, e che non sembrano risolversi spostando la questione nei termini di una scelta di natura esclusivamente politico-economica di tipo meramente istituzionale.
Fonti e Riferimenti:
IMPRESE E LAVORO NELLO SPAZIO ECOLOGICO DEI MACROAPPARATI. Orlando presenta ai sindacati le regole del gioco.
GRILLO DIFENDE IL SUPERMINISTERO GRETA/GATES E SPINGE PER LA VARIANTE 5S – Il programma nel dettaglio.
Documento: Industrie Italy 711 italien WEB-4
IX COMMISSIONE (TRASPORTI, POSTE E TELECOMUNICAZIONI) Documenti acquisiti
Archivio Fiom http://archivio.fiom.cgil.it/
Tesla a Taranto? https://insideevs.it/news/502429/elon-musk-ilva-taranto-tesla/