“Condizioni al contorno era: questi esseri vengono. Non abbiamo più dubbi! Se vengono. E vengono qui, e fanno delle cose che sono sempre le stesse all’addotto, che non se le ricorda ma che poi in ipnosi regressiva le racconta sempre allo stesso modo, ci deve essere un motivo. Quali sono questi ricordi?” Estratto dall’intervista di Eugenio Miccoli a Corrado Malanga.
Trascrizione dell’estratto :
“Il soggetto viene preso. Viene portato in un ambiente alieno. Viene sbattuto su un tavolo e viene operato chirurgicamente. Gli vengono inseriti dei microchip. Nelle femmine viene utilizzato l’apparato genitale della femmina per introdurre un ovulo che dopo tre mesi viene ripreso. E questo ovulo, sotto forma di blastula, un esserino piccolo, a questo punto viene preso e viene messo in una specie di contenitore, che sembra una piccola bottiglietta di vetro, e portato dentro una stanza. Dove ci sono tante bottigliette di vetro, dove dentro ci sono tutti questi esseri. E le bottigliette, che sono sostanzialmente delle placente artificiali, cambiano di forma mano a mano che il soggetto cresce dentro, fino ad ottenere forme di cilindri di vetro alti 2 metri e 40, 2 metri e 50, riempiti di uno strano liquido trasparente, dove dentro si vede, sempre, sia esseri umani che esseri alieni con fattezze completamente diverse.
– Diverse tra di loro?
– Diverse tra di loro. Ci sono diverse razze, non tantissime ma ce ne sono, 5…6…7…8…10 Sempre le stesse venivano raccontate, sempre le stesse venivano descritte. Questo era ciò che accadeva. Tutti raccontavano esattamente la stessa cosa. Quindi da un punto di vista statistico, siccome la statistica è una scienza esatta sui grandi numeri, noi dobbiamo dire che questi racconti acquisivano un alto indice di credibilità. Allora, da questo punto di partenza dovevamo chiederci: «Ma perché loro fanno così?». L’idea primaria era: «Ma probabilmente perché loro sono sterili e utilizzano noi in qualche modo. Fanno prelievo di sperma nei maschi (ed era vero). Fanno innesti di ovuli nelle femmine nostre (ed era vero). Quindi loro sono sterili e usano noi, senza che noi se ne sappia nulla». Sì, questa era in parte la verità, ma c’era una verità ancora più strana e stravolgente di cui noi ci accorgemmo per puro caso, ovviamente. Lavorando, in quell’istante, in quel momento storico con tre gruppi diversi di ricerca, che facevano le ipnosi regressive su gruppi sempre differenti di soggetti. Poi i dati venivano raccolti e venivano paragonati dei tre gruppi diversi: ognuno dei tre gruppi aveva gli stessi identici risultati. Quello che successe la prima volta è la seguente cosa: si prende il soggetto, si mette un ipnosi profonda. Questo racconta di vedersi dall’alto, mentre lui si vede steso su una specie di lettino metallico, che era sempre lo stesso, descritto nello stesso modo: con un’unica gamba al centro, un po’ svasata. Così! Vedete?! Anche i piccoli particolari erano uguali. Tutto dall’alto si vedeva. E vedeva due se stessi: uno disteso su un lettino metallico e l’altro dentro uno di questi grandi cilindri: uno uguale a lui, una copia. A questo punto la tecnica di ipnosi, prevedeva di fare delle domande di controllo che tentassero di stabilire se il soggetto stesse ricordando veramente qualcosa, rivivificando (come dice il manuale di ipnosi, il termine vero, corretto, ericsoniano). Oppure si stesse inventando delle cose. Senza entrare nei particolari, l’ipnosi regressiva è una tecnica che prevede che, se uno fa bene il proprio lavoro, il soggetto non inventa niente. Non è in grado di inventare niente. La affidabilità dei ricordi in ipnosi, nell’ipnosi corretta scientificamente fatta, sono perfetti. Sono assolutamente credibili. Il soggetto si vedeva dall’alto. Le domande erano: «Guardati le mani!» E il soggetto in ipnosi rispondeva: «Ma io non ho le mani, non vedo le mani». «Guardati il corpo!» «Ma io non vedo il corpo». «Come ti chiami?» E il soggetto rispondeva: «Ma noi non abbiamo nome (al plurale)». E poi, dopo 30 secondi di pausa, diceva: «Io so come si chiama lui. Quello che vedo laggiù in basso. Si chiama Giuseppe: è il mio contenitore, io ci abito dentro. Sono venuto lì dentro per fare l’esperienza». Strano! « Ma, allora, definisciti. Chi sei?» E la risposta era: «Io sono la vita, una matrice di punti di luce». Ancora più incredibile! Domande. Risposte. Tutte sempre uguali. Fatti su 300 persone, 300 persone rispondevano nello stesso modo. «Sai cosa vogliono? – allora chiedevo – Sai cosa vogliono quegli esseri strani che vengono a prenderti?». «Eh, loro non vogliono il mio contenitore! Va, anche lui! Ma vogliono soprattutto me». «Perché?» «Perché io sono la vita! E loro non vogliono morire!». Queste risposte ci lasciarono con la bocca aperta perché pensammo: «Ci deve essere qualche cosa che stiamo sbagliando». Alla fine, dopo 3500 casi analizzati, non ci stavamo sbagliando. Questa era qualcosa che rispondeva, che aveva una propria coscienza, che abitava all’interno del nostro corpo a cui noi demmo un nome convenzionale: la chiamammo “Anima”.
Ma, in realtà, è un gruppo di tensori e di vettori, da un punto di vista fisico e geometrico, che ha la caratteristica di avere l’asse dell’energia, l’asse dello spazio, ma di vivere il tempo in modo non locale (direbbe la fisica quantistica moderna). Cioè di vivere il tempo in un unico momento: vivere totalmente il tempo passato, presente, futuro come se fosse non locale. Nel contenitore umano c’erano altri due pezzi: una parte mentale e una parte spirituale. La parte mentale era fatta di spazio e di tempo. La parte spirituale era fatta di energia e di tempo, ma non di spazio. Vedete che, in ognuna di queste tre parti, mancava un vettore: allo spirito mancava lo spazio, all’anima mancava il tempo e alla parte mentale mancava l’energia. All’alieno interessava la parte animica, cioè quella parte senza tempo. Perché? Perché l’alieno non voleva morire! Il non voler morire era…in qualche modo, si cercava di bypassare questa questa voglia di non morire, utilizzando un pezzo che, non avendo la parte animica, non avendo la parte temporale, era immortale. Noi scoprivamo in quel momento che gli esseri umani sono immortali. Scoprivamo che avevamo, dentro di noi, una parte immortale: che non aveva l’asse del tempo. Ma allora (perché ci dobbiamo fare sempre delle domande), come mai noi moriamo? Noi abbiamo una parte immortale e moriamo? La risposta veniva piano piano, ma era l’unica risposta possibile: noi moriamo perché dobbiamo fare l’esperienza della morte. Siamo qui per acquisire la consapevolezza del cominciare, fare l’esperienza della vita e morire. Cominciare e terminare. Fare un’esperienza della dualità. Cioè un istante in cui noi dobbiamo comprendere chi siamo. E l’unico modo per comprendere chi siamo è metterci alla prova: vivere in una realtà solida in cui ci sono le esperienze. Le esperienze della vita, le esperienze della sofferenza, della gioia, del bene, del male, del duale: buono-cattivo, acceso-spento. Perché tutto doveva essere duale?
E l’idea fu: utilizzando ciò che veniva fuori dalle ipnosi regressive e ciò che veniva fuori dalla esperienza che la parte animica portava… perché la parte animica, non avendo asse del tempo, c’erano dall’inizio dei tempi, c’era sempre stata e diceva le cose come stavano: noi siamo qui, entriamo in questi contenitori, che sono i corpi umani, per fare l’esperienza della vita. Lo diceva lei, non avevamo bisogno noi di farci una teoria. All’inizio c’era la coscienza. La coscienza, non sapendo chi era, per caso si divise in due e, nell’istante in cui si è divisa in due, è nata la dualità. In quell’istante nasce l’universo virtuale così come lo conosciamo oggi. Virtuale non vuol dire finto, virtuale vuol dire modificabile. L’universo virtuale è quel punto e quell’istante in cui c’è la separazione: io-l’altro, io credo che l’altro sia un altro. Invece l’altro sono sempre io. Tutto è stato creato da un’unica cosa, che però vive esperienze diverse. Come se noi fossimo un polpo con tantissimi tentacoli e ognuno dei tentacoli è una piccola coscienza, una piccola telecamera, che guarda l’interezza dell’universo per fare la sua piccola esperienza. Dopodiché tutto si richiude e tutto torna a essere uno. Ma non è l’uno di partenza, è un uno che ha fatto esperienza di sé. Quindi è un uno che capisce che cos’è l’unità, l’unicità, perché ha fatto l’esperienza del contrario: cioè della separazione, della dualità. Noi siamo qui per imparare a vivere e a morire: perché solo attraverso la esperienza si impara e, solo attraverso l’esperienza della morte, si capisce che la morte non esiste. Ecco! E l’alieno che c’entrava in tutto questo? Eh, l’alieno non aveva la parte animica! L’alieno aveva una mente, aveva un corpo, aveva uno spirito: gli mancava l’hardware della parte animica. Non avendo l’hardware della parte animica, non sapeva che la morte non esiste. Non solo, ma questo portava l’alieno ad avere paura della morte, proprio perché non la conosceva. E, per evitare di morire, l’alieno ha installato dentro di sé l’idea che deve prendere la vita a qualcun altro, perché lui non vuole fare l’esperienza della morte. Noi invece siamo venuti qui, pur avendo tutte le parti, tutte le coscienze di anima, di mente, di spirito: che sono tre cose che si comportano con tre coscienze differenti. Tre rematori che remano sovente in questo mondo, non avendo consapevolezza neanche l’uno dell’altro. Le tre parti remano in tre direzioni diverse. Noi ci troviamo a fare l’esperienza della morte, perché siamo venuti qui per volerla fare questa esperienza della morte e non ha senso allungarci la vita in eterno, diventare immortali. Come nel mito del “Ritratto di Dorian Gray” che fa, nell’omonimo film, nell’omonimo romanzo, il patto col diavolo e invecchia la propria anima, il proprio quadro, ma lui non invecchia. Nel “Ritratto di Dorian Gray” c’è scritta la realtà: a un certo punto Dorian Gray che ha fatto, questo personaggio del film, del libro, ha fatto il patto col diavolo, capisce che vivere in eterno è una cosa tremenda, è una uno sforzo allucinante e, soprattutto, non fa quello che deve fare. Cioè l’esperienza della morte! Attraverso l’esperienza della morte si comprende che la morte non c’è! Benissimo, quindi, noi la dobbiamo fare questa esperienza. Non ha senso allungarci la vita: ha senso soffrire di meno, ma questo è un altro particolare”.